L’autoritratto, linguaggio evoluto per rappresentare la propria identità
La Camera Chiara è un saggio che Ronald Barthes scrisse nel 1979 a pochi mesi dalla sua morte, vi sono una serie di appunti biografici e riflessioni che hanno guidato alla lettura dell’immagine fotografica generazioni di artisti, studiosi, semiologi o semplici amanti. Barthes ricostruisce la vicenda storica della fotografia, per chiarezza e sinteticamente si concentra sull’Operator che realizza lo scatto, sullo Spectrum che subisce la foto e su chi la guarda lo Spectator, delinea così il momento del fare, dell’inizio del breve percorso che porterà alla realizzazione fotografica. Nel suo analizzare raccontando, il linguista e semiologo francese descrive il lungo viaggio personale che porterà all’autoritratto realizzato nel 1975. “ Nel parlare di me mi rappresento davvero? E quale è la rappresentazione impegnata?” Quindi Barthes individua tre profili dell’autore nel mettersi in causa : l’autoanalisi, il self-service nella rappresentazione propria, la possibile infinita duplicità. Lavorerà al “Dizionario di me stesso “ ricostruendo tutto anche con il sostanziale ausilio della macchina fotografica. Nell’esperienza dell’oggi ogni tempo è annullato, l’immagine è immediatamente verificabile, modificabile, ma non per questo a volte significativa. Eliminata l’analisi, quasi sempre effettuata successivamente alla realizzazione, se dovessimo “ricostruirci” attraverso i nostri autoscatti, la casualità potrebbe essere la vera protagonista. Il frequente e quotidiano rito del selfie può essere considerato come evoluzione tecnologica dell’autoritratto? Il gesto assume in sé ogni aspetto legato all’autolettura più o meno rassicurante, il semplice autoscatto è una modalità tecnica per coinvolgere una totalità di soggetti, o semplicemente dialogare con la propria immagine, magari davanti allo specchio. Ora l’utilizzo della tecnologia diviene serrato, ci si ritrae ed immediatamente si condivide quell’ immagine in rete, si consuma il rito in un attimo. La nostra memoria visiva rimarrà così parzialmente utilizzata, sottostimata, per nostra fortuna, sarà comunque impossibile eliminarla, rimarrà una memoria d’archivio, ma utilizzeremo immediatamente lo strumento per ricordare, saremo funzionali alla tecnologia senza sentire la necessità del contrario. Gli artisti si sono spesso fotografati.
Edvard Munch ha ritratto se stesso varie volte, l’immagine più nota è quella realizzata nel suo giardino a Ekely nel 1930. Vi appare di profilo, concentrato e forse intento a dipingere uno dei suoi inquietanti chiaroscuri, in una intervista di quell’anno Munch diceva “ Ad esempio ho imparato molto dalla fotografia, ho un vecchio apparecchio fuori moda con il quale ho scattato numerose immagini di me stesso, spesso hanno un effetto stupefacente. Quando sarò vecchio e non avrò niente di meglio da fare che scrivere la mia autobiografia, allora anche tutti i miei autoritratti fotografici vedranno la luce del giorno”.
Intorno ai settant’anni Munch realizzò nuovi autoritratti, fotografò se stesso con diverse angolazioni, in molti manipolò la ripresa fotografica usando la doppia esposizione, sono immagini intime, ma mantengono come un elegante distacco certamente consapevole e voluto.
Gaspard-Felix Toumachon più noto con il suo pseudonimo Nadar realizzò uno dei più efficaci autoritratti fotografici della sua epoca: il viso appoggiato alla mano destra in posa perfetta con lo sguardo concentrato sull’obiettivo.
Altrettanto nota la sua dichiarazione del 1856 “ la fotografia è una scoperta meravigliosa una scienza che occupa le intelligenze più evolute, un’arte che acuisce le menti più sagaci e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli….La teoria fotografica si apprende in appena un’ora, le prime nozioni riguardanti la pratica in una giornata. C’è qualcosa però che non si impara….mi riferisco al senso della luce, alla valutazione artistica degli effetti prodotti dalla combinazione di vari tipi di luce. Tuttavia l’aspetto ancora più difficile da imparare è l’intelligenza morale del vostro soggetto, quell’intuizione che vi mette in contatto con il modello e vi permette di darne non una pura e semplice trascrizione plastica….ma la somiglianza più familiare, più favorevole, la somiglianza intima. Mi riferisco al lato psicologico della fotografia.
Stefano Schiavoni