La miniera di Cabernardi: quando davvero il lavoro nobilita l’uomo
A Cabernardi, frazione del Comune di Sassoferrato, a 410 m. sul livello del mare, era presente fin dai primi anni ’50 del Novecento uno dei grandi poli minerari di zolfo italiani ed europei. Le origini della miniera si perdono nella leggenda, la quale racconta di un contadino, proprietario di un podere vicino il cui bestiame si abbeverava ad una pozza d’acqua affiorante nei pressi; queste ad un certo punto, non vollero più avvicinarsi all’acqua sulla cui superficie si formava una patina dall’odore fortemente sgradevole. Chiamato un perito, questi constatò che la sorgente attraversava una falda di zolfo. Ebbe così inizio, prima in forma artigianale poi a livello industriale, l’estrazione del minerale. Venne avviata inoltre, un’intensa fase di ricerca anche presso località vicine, precisamente a Percozzone e a Bellisio Solfare, paese questo a circa 10 km da Cabernardi. Bellisio venne poi inserita nel sistema produttivo, con la costruzione della raffineria, collegata alla zona delle miniere con una teleferica. La zona attiva solfiera formava un bacino allungato in forma di eclisse che andava da Pergola a Sassoferrato. La prima concessione ad essere esplorata fu quella di Percozzone nel 1877, per poi passare ad uno strato verticale riccamente mineralizzato e fortemente produttivo tra il 1889 e il 1899 con 325.638 tonnellate di minerale per dare 65.517 tonnellate di zolfo rezzo.
Nel 1899 la miniera venne acquistata dalla ditta Trezza-Albani che impiegava 300 operai per poi essere ceduta alla Montecatini nel 1904. Nel 1920 i lavoratori occupati raggiunsero le 840 unità. Il lavoro in miniera andò così ad affiancarsi a quello agricolo da sempre presente nella zona (caratterizzato dal sistema mezzadrile), migliorando le condizioni di vita delle famiglie contadine che però pagarono tutto ciò caramente, con i danni provocati ai terreni e al bestiame dalle esalazioni di anidride solforosa di cui si diceva addirittura che faceva “corrodere le tende all’interno delle case quando arrivava in paese”.
Per non parlare poi delle malattie ai polmoni e alle vie respiratorie degli abitanti della zona. Questo portò l’azienda a dover risarcire i cosiddetti “danni fumo” e per ovviare a tali costi, l’azienda preferì comprare lei stessa i terreni nel raggio più vicino alle miniere, maggiormente esposti all’azione dell’anidride solforosa. Negli anni precedenti la 1° Guerra Mondiale, ai due pozzi di Cabernardi si aggiunse quello di Percozzone, anch’esso poi venduto alla Montecatini che così acquisì di fatto, una grande fetta di produzione e di mercato dello zolfo in Italia. E’ di questi anni il massimo potenziamento delle attività che portò ad un elevato numero di occupati, tanto che si costruì un villaggio, prima di 15 case poi ampliato, per dare alloggio a coloro che venivano qui a lavorare anche da oltre confine italiano. Ciò svilupperà un vero e proprio sistema economico più allargato e complesso con l’avvio di piccole attività artigianali e commerciali: muratori, calzolai, falegnami e fabbri risposero alle nuove esigenze di una comunità ora più ampia, così come la bottega del sarto, del droghiere, del barbiere e dell’oste. Ancora diffuso era però l’analfabetismo, per le evidenti difficoltà di frequentare scuole spesso molto lontane dalle abitazioni. Una vera e propria comunità quindi, con una popolazione che arrivava a 3000 unità. Ma dal 1952 iniziò l’esaurimento del minerale, prospettando riduzione di tonnellate e di manodopera. Prese il via un periodo di licenziamenti, ma anche di lotte da parte di chi non si rassegnava ad un futuro di emigrazione e allontanamento verso altre terre per continuare ad avere un lavoro. Il ricordo più forte è l’occupazione della miniera nel maggio del 1952 da parte di un gruppo di minatori che “sepolti vivi” per giorni, misero in piedi un’azione di forza nei confronti di 860 lettere di licenziamento. I mezzi di comunicazione dell’epoca riportarono la notizia e seguirono l’evolversi della vicenda fino al suo epilogo: “L’Unità” del 2 luglio 1952 pubblica un lungo ed approfondito articolo di Pietro Ingrao, corrispondente sul posto e un giovane Gianni Rodari, giornalista di “Vite Nuove”, bene descrisse l’atmosfera e la preoccupazione di quei giorni da parte delle famiglie dei minatori e di chi era rimasto fuori: “…i minatori rimasti in superficie occupano la miniera dall’esterno per impedire che la Montecatini carichi e porti alle raffinerie il materiale già estratto. Fuori dal recinto della miniera vigilano notte e giorno, da 30 giorni, gruppi di donne. Sono donne dei minatori ed anche semplici contadine… Alla Casa del Popolo di Cabernardi sono state impiantate le cucine per il pasto di mezzogiorno dei minatori. La cena è portata dalle donne dei “sepolti vivi”. La polizia che occupa i cancelli esterni, ispeziona i fagottini, fruga tra il cibo in cerca di sigarette e legge i biglietti che le famiglie scrivono ai congiunti, in cerca di messaggi segreti… Le donne fanno 10, 12 km dal paese alla miniera e altrettanti al ritorno. Vi sono donne che da 30 giorni fanno a piedi anche 25 km di strada per portare la cena a un minatore o tentare di vederlo…” L’occupazione finì il 7 luglio con l’uscita dal sottosuolo che venne festeggiata con affetto dalla gente e celebrata dalla CGIL con una manifestazione cui prese parte anche Giuseppe Di Vittorio, allora segretario generale. Purtroppo tutto ciò non modificò i programmi dell’azienda ed i licenziamenti vennero eseguiti, per primi proprio quelli di chi aveva occupato il sottosuolo. Il 5 maggio 1959 avvenne la chiusura definitiva. Iniziò così un grande fenomeno di migrazione verso gli altri stabilimenti Montecatini se non addirittura verso i bacini minerari in Belgio e in Canada.
Oggi tutto ciò è archeologia mineraria fatta di siti da visitare, di sentieri usati dai minatori tra le alte colline per raggiungere ogni giorno la miniera, di documenti raccolti e conservati nel Museo di Cabernardi, del villaggio di Cantarino e di testimonianze di chi c’era. E’ questa una storia di uomini scritta con la fatica e la sofferenza di chi metteva al centro il lavoro come elemento attorno al quale plasmare i valori fondamentali della dignità e della libertà.
Uomini legati alla propria coscienza e al territorio di origine che non hanno fatto parte della storia di un’epoca, ma che sono stati essi stessi la Storia.
di Morena De Donatis